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Giuseppe RANDO - STRANA MESSINA

 

In un recente post pubblicato su Facebook, il mio collega e amico Antonio Di Grado,
professore ordinario di Letteratura Italiana già presso l’Università di Catania,
ricorrendo il ventiseiesimo anniversario dell’uscita del suo De Roberto (La vita, le
carte, i turbamenti di Federico De Roberto gentiluomo), ha riproposto, «con lo
stesso affetto», i suoi «ringraziamenti a maestri, amici e familiari che [lo] avevano
variamente aiutato», già contenuti nella Premessa di quel suo interessantissimo libro.
Varrebbe la pena di rileggerla, quella Premessa, come documento esemplare di una
corretta prassi universitaria fondata sulla circolarità dei saperi, sulla collaborazione
tra maestri ed allievi e sulla condivisione con i colleghi dei traguardi scientifici
raggiunti: una stimolante socialità che non mortifica – semmai esalta –
l’individualità.
Di Grado ricorda, in specie, il suo «allievo e amico Rosario Castelli», Francesco
Branciforti, Mario Sipala, Natale Tedesco, Leonardo Sciascia, Marzia Finocchiaro,
Cristina Grasso, Antonio Guarnaccia, Giuseppe Maimone, Marcella Minissale,
Arturo Panascia, Gaetano Zio e la signora Carla Paola, pronipote di De Roberto.
A questo bel post ho aggiunto un mio breve, sentito commento, che riporto:
Mi complimento per il tuo De Roberto e quasi ti invidio (non soggiaccio, di
norma, a questo vizio) per la folta schiera di amici e maestri che hanno secondato
il tuo impegno. Qui, a meno di cento chilometri di distanza, voglio dire a
Messina, non bastava – e non basta – scrivere saggi innovativi per avere colleghi
solidali (non parliamo di maestri locali, inesistenti nel nostro settore). Viva la
Sicilia dell’arte, della letteratura, del lavoro duro, della ricerca, del merito e della
trasparenza.
In verità, pensando – a ridosso del post di Antonio Di Grado – alla mia benamata
città e a certe sue specifiche “virtù”, mi era tornato dapprima in mente un aforisma
che mi capitava di sentire frequentemente nei discorsi dei vecchi, durante gli anni
beati della mia adolescenza cariddota: «U missinisi è amanti du sangu stranu». Però,
subito dopo, lo avevo lasciato cadere, ritenendolo retrodatato, e avevo optato per il
commento di cui sopra.
Nei fatti, però, quel mio primo pensiero aveva una ragion d’essere, ove si consideri
che trova riscontro nella realtà: nell’ultimo sessantennio, per esempio, presidi delle
due Facoltà umanistiche che mi è stato dato di frequentare non sono stati studiosi
messinesi, bensì catanesi o tarantini o calabresi, a iosa: e – si badi – nulla quaestio,
quando qualcuno (raramente) ha ben meritato. «Tout se tient».
Stamattina, peraltro, mi accorgo che quell’aforisma focalizza anche, efficacemente,
con la forza della metafora popolare, il comportamento tipico del provinciale (e del
messinese, in particolare), il quale – forse, per un malcelato complesso d’inferiorità
– mostra una certa deferenza (non priva d’ipocrisia) nei confronti dei forestieri (che
presume più avanzati socialmente e culturalmente). Potrebbe essere sottesa,

insomma, a quella locuzione popolare, la critica della falsa esterofilia (?) dei
messinesi.
Ferma restando, ad ogni modo, la riconosciuta indifferenza-irriconoscenza dei
messinesi nei confronti dei concittadini meritevoli: se ne trova traccia anche nelle
novelle di Boner, il più grande narratore messinese di fine Ottocento (uno che
conosceva bene la città dello Stretto, da lui profondamente amata, e la mentalità –
non sempre ragguardevole – dei suoi abitanti).
Certo, oggi, mentre trionfa a tutti i livelli il globalismo, dovremmo essere fuori dalle
miserie provinciali.
Ma una ulteriore riflessione consente di fare quell’aforisma – il dialetto siciliano è
una miniera di sensi e di registri – se, uscendo dalla metafora del «sangu», si
considera una seconda accezione di «stranu»: quella di «strano», cioè insolito,
inconsueto, atipico, anormale. In tal caso, quell’arcaico aforisma si muterebbe in
quest’altro: «Il messinese predilige ciò che è strano», insolito, inconsueto, atipico,
anormale. E qui, invero, non si finirebbe mai di trovare, con rammarico dei
messinesi che amano la loro città, riscontri oggettivi.
Non è strano che i messinesi abbiano eletto, per decenni e decenni, sindaci dello
stesso colore politico, anche se nessuno di loro faceva mai alcunché per la città?
Anche se il mare corrodeva le più belle coste della Sicilia? Anche se l’industria
scompariva dalle rive dello Stretto? Anche se il turismo latitava nella città dello
Stretto? Anche se i giovani, privi di lavoro, abbandonavano la città dello Stretto?
Restano, per la verità, nella memoria collettiva, per il bene fatto o tentato, solo un
sindaco del passato e qualcuno del presente.
Non è strano che i messinesi accreditino della loro fiducia un politicante che li ha
sempre disprezzati come meridionali?
Non è strano che i messinesi, abitanti in una città di mare, ignorino il mare, i venti, le
correnti, i pesci?
Non è strano che le “prime donne” (maschi e femmine) di innumerevoli associazioni
culturali della dottissima città dello Stretto alzino i muri contro le prime donne di
altre associazioni culturali? E che la vita associativa si risolva, in gran parte, a
Messina,in una lotta o in una sfilata di “prime donne”?
Non è strano che la città dello Stretto si segnali soprattutto – con l’immenso dolore
di noi che l’amiamo toto corde – per casi di malaffare, finendo con l’essere definita
«verminaio»?
Non è strano che i professori universitari messinesi (tranne qualche gatto solitario)
non abbiano mai apertamente criticato, a fin di ben, più o meno clamorosi casi di
corruzione accademica?
Non è strano che in qualche Facoltà messinese, priva di veri maestri, fioriscano saggi
e libri innovativi, scritti e pubblicati da un messinese stimato e accreditato altrove?
Non è strano che si lasci disperdere tra le rovine, in città, un patrimonio artistico e
culturale che altrove sarebbe un tesoro da tutelare e valorizzare?
Non è strano che alcuni volenterosi lottino per anni – con pubbliche manifestazioni
di proposta e protesta, con la pubblicazione di libri e articoli accreditati – per fare di
Messina una città pascoliana (riuscendo quantomeno a fare intestare a Pascoli la

Biblioteca dell’ex Provincia) e che nessuno di questi poveri illusi venga ospitato in
un convegno che verte (sia pure indirettamente) su Pascoli a Messina?
Ma, alla fine, non è davvero strana la già gloriosa città dello Stretto?

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